L'avvento del volgare
di Caterina Carpinato
[…] Ma venne l’epoca degli esami e una bella mattina mi trovai in scuola coi miei due compagni, a tre tavolini separati, onde scrivere i nostri componimenti per l’esame. M’era toccato, nientemeno, un componimento in greco!
E col Lexicon Schrevelii e la grammatica, faticavo come un asino e lentamente spremevo fuori goccia a goccia questa ellenica produzione […]. Dio sa che greco scismatico stavo partorendo! […] Accettai dunque l’autorità, e copiai impudentemente il tema greco, che fu trovato, com’era naturale, una meraviglia… Venne il giorno della distribuzione dei premi, e ricevetti in seduta pubblica, dalle mani del conte Balbo, un bell’in-folio, Homeri opera omnia, ben legato, con un complimento sulla mia erudizione. Questo volume ancora è fra i miei libri; e penso lasciarlo ad una biblioteca pubblica, come restituzione (è un po’ dura a pronunziare la parola, ma ci vuol pazienza) di roba rubata.
Massimo D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze 1867, I, pp. 142-143
Così Massimo D’Azeglio (1798-1866), senatore del Regno d’Italia, scrittore (e genero di Alessandro Manzoni), ricordava la prova finale di greco, sostenuta con i suoi due compagni di classe. Vistolo in difficoltà, un docente gli aveva fornito il testo bell’e fatto, in modo che superasse brillantemente gli esami e ottenesse complimenti per le sue competenze e una preziosa opera contenente tutto Omero. Non sappiamo come se la siano cavata gli altri due studenti, ma sicuramente D’Azeglio non era in grado di comporre in greco (Dio solo sa, scrive a un certo punto, che razza di greco scismatico stesse partorendo…). Il giovane Massimo, dunque, a Torino nel primo decennio del XIX secolo, non aveva una grande passione per la lingua greca, (né – in realtà – uno spiccato interesse per lo studio scolastico). Un altro nobile ragazzo suo coetaneo, invece, nella provincia più remota delle Marche, a Recanati, assetato di parole, apprendeva greco ed ebraico da solo (senza neppure quegli altri due banchi occupati dai compagni di D’Azeglio). I sette anni di studio «matto e disperatissimo» (come scriveva a Pietro Giordani nel 1818) sono comunemente conosciuti.
D’Azeglio e Leopardi, rampolli di famiglie aristocratiche, avevano la possibilità di leggere, imparare e studiare le lingue degli antichi, senza finalità ecclesiastiche e senza ragioni utilitaristiche. Il greco come vero lusso. Il greco, per loro e per altri della loro epoca e della loro classe sociale, rappresentava un passaggio obbligato per comprendere il valore del patrimonio degli antichi e saper valorizzare la storia e le storie non solo dei classici ma anche delle famiglie delle quali erano eredi. [...]
The rise of the vernacular
[…] But the time of exams came, and one beautiful morning I found myself in school with my two classmates, each at a separate table, to write our compositions for the exam. I had been assigned, no less, a composition in Greek! With Schrevelius’ Lexicon and the grammar, I struggled like an ass and slowly squeezed out drop by drop this Hellenic production […]. God knows what kind of schismatic Greek I was giving birth to! […] So I accepted the authority [i.e. the teacher’s help] and shamelessly copied the Greek text, which, naturally, was found to be excellent… The day of the prize distribution came, and, in a public session, I received from the hands of Count Balbo a beautiful folio, Homer’s complete works, finely bound, with a compliment to my erudition. This volume is still among my books; and I intend to leave it to a public library, as a restitution of stolen goods (it is quite hard even to utter the word, but patience is required).
Massimo D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze 1867, I, pp. 142-143
Thus, Massimo D’Azeglio (1798-1866), senator of the Kingdom of Italy, writer (and son-in-law of Alessandro Manzoni), remembered his final Greek exam, taken with his two classmates. Seeing him in difficulty, a teacher had provided him with the text already translated, so that he would pass the exams brilliantly, receive compliments for his skills, and obtain a valuable work containing all of Homer. We do not know how the other two students fared, but certainly D’Azeglio was not capable of composing in Greek (“God knows”, he writes at one point, “what kind of schismatic Greek I was giving birth to”).
Young Massimo, then, in Turin in the early 19th century, did not have a great passion for the Greek language (nor, in truth, a marked interest in his studies). Another noble boy of his age, Giacomo Leopardi, however, learned Greek and Hebrew on his own in Recanati, in the remote province of Marche (without even those other two desks occupied by D’Azeglio’s classmates). His seven years of “mad and desperate” study (as he wrote to Pietro Giordani in 1818) are well known.
D’Azeglio and Leopardi, scions of aristocratic families, had the opportunity to read, learn, and study the languages of the ancients, without ecclesiastical aspirations nor utilitarian reasons. Greek was a true luxury. Greek, for them and for others of their age and social class, represented a necessary step to understand the value of the heritage of the ancients and to know how to appreciate the history and stories not only of the classics but also of the families from which they stemmed. [..]